The Italian job.

Italiani, popolo di poeti, santi e navigatori..


Durante il periodo rinascimentale l’Italia era spesso vista come patria della cultura europea, madre di artisti del calibro di Michelangelo, Leonardo da Vinci e innumerevoli altre personalità che hanno lasciato un segno indelebile nella storia. Toscana prima, Lazio poi, grazie a figure carismatiche come Lorenzo de’ Medici e Papa Giulio II riuscirono ad accaparrarsi i migliori sulla piazza, dal Verrocchio a Botticelli, da Bramante a Raffaello, a cui affidarono la decorazione di ambienti magnifici. Italiani mecenati, amanti della poesia e di tutti le forme in cui l’arte si potesse esprimere.

Veneziani e genovesi vennero sempre visti come i padroni del Mediterraneo, prima che la concorrenza anseatica, spagnola, portoghese e turca facesse perdere loro il predominio sui mari. La figura dell’italiano migrante, avventuriero si è in qualche modo ristabilita alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX, quando non era più l’innato senso per gli affari e il commercio a muovere le masse ma la semplice e implacabile fame che non permetteva più la sopravvivenza. Le direttive principali di questo primo, grande esodo furono due. L’Argentina e gli Stati Uniti d’America, terra delle opportunità, fonte di speranza, “mito” per molti autori (Pavese su tutti). Da qui nasce un altro stereotipo, quello che gli abitanti del Belpaese si portano addosso con più vergogna. Italiano mafioso. Italiani sporchi, rumorosi, Italiani che come ratti si annidano in baracche maleodoranti, pieni di figli che non sanno come mantenere. Perché ora si tende a dimenticare ma noi eravamo proprio questo per i liberali Americani. E ben presto diventammo ai loro occhi gli esportatori del modello mafioso per eccellenza, quello che prevedeva prestito ad usura, contrabbando di armi e di alcool durante l’era del proibizionismo, tutto ciò di negativo che da film come “Il padrino” potete estrapolare.

Ma negli ultimi anni posso affermare con certezza che si può aggiungere un altro capitolo alla saga. Gli Italiani sono popolo di allenatori di pallacanestro.

 E’ vero, si rischia troppo di generalizzare la questione ma sentite qua. I cognomi di 3 dei 4 allenatori che sono arrivati alle Final 4. Matta, Pitino e Calipari. Sounds familiar?
Per Rick questa è la terza squadra diversa, dopo Providence e Kentucky con cui arriva a questo ambito traguardo. Unico nella storia. Fu artefice della ripresa dei Knicks del biennio ’87-’89 e venne scelto come allenatore su cui rifondare i Celtics, in uno dei periodi più bui della loro storia gloriosa. Un’offerta che non poteva rifiuare. Fallì, ma l’impresa era troppo grande per un uomo solo.
John invece è universalmente riconosciuto come il più grande recruiter del basket NCAA attuale e forse di ogni epoca. In un solo anno ha fornito al draft NBA Wall, Cousins, Patterson e Bledsoe. E l’anno dopo è arrivato alle Final Four inchinandosi solo ai futuri campioni di UConn. In 3 anni a Kentucky la Rupp Arena non è stata ancora violata. Quest’anno ha tra le sue fila due delle prime 5 scelte al NBA Draft 2012, Anthony Davis e Michael Kidd-Gilchrist. Ah, è riuscito a portare Derrick Rose a Memphis, quando aveva offerte da mezzo universo. Dite che gli manca il carisma?
A questo unico trio si va ad aggiungere a D’Antoni (non naviga in acque felici ora come ora ma non si può non citare), Del Negro, PJ Carlesimo, Mike Fratello, per non parlare dello storico allenatore di St.John’s Lou Carnesecca. Abbiamo persino due campioni NBA in questa folta schiera. Al Cervi, allenava i Syracuse Nationals del titolo 1955, mentre Dick Motta (quello di The opera isn’t over til’ the fat lady sings) frase motivazionale che portò i Washington Bullets ad imporsi prima in finale di Eastern Conference sugli Spurs (sì, erano considerati ad Est, notate come il baricentro del mondo NBA si sia decisamente spostato) e poi sui Supersonics, aggiudicandosi il Larry O’Brein per l’annata 1977-78.
Per una pagina che tratta di NCAA non si può non citare poi il maestro Dick Vitale, il Bruno Pizzul del college basketball, immortale personalità che dal 1979 (dal 1985 per ESPN) con il suo stile inconfondibile, il suo entusiasmo per il commento e sopratutto le sue “calls” nei momenti cruciali o nelle giocate esaltanti. I suoi “Ohhhh I can’t believe it” o “slam jam bam, awesome baby”, il suo slang particolare con il -lang o il -ooty in fondo alle parole, i soprannomi che affibbia ai giocatori, alle giocate, a ogni ambito del gioco. A lui si deve l’invenzione dei termini TO (a indicare Timeout), PT (playing time), PTP (Prime Time Performer), “rock” a indicare il pallone da basket. Un riformatore della telecronaca, guidato da una passione unica per il suo lavoro. Dickie V va menzionato insieme al suo inseparabile amico Jimmy V, Jim Valvano, scomparso prematuramente a causa di un cancro ma in tempo per vincere uno dei titoli più incredibili della March Madness. Con la sua NC State upsettò una delle squadre più forti mai viste solcare un campo da basket guidata da due futuri Hall of Famer e di certo tra i 50 giocatori migliori della storia NBA in Clyde Drexler e Hakeem Olajuwon.

Tom Izzo cui ho vagamente accennato nell’articolo su Cleaves e gli Spartans del 2000 merita un capitolo a parte. Partiamo dalla fine. I Cavs nell’estate del 2010, quella della “decision” lo contattarono nella disperata speranza di riuscire a trattenere LeBron James a Cleveland. Tra tutti i coach disponibili sulla piazza, lui fu la prima scelta. Izzo ci pensa per una settimana ci pensa e poi rifiuta. Motivazione? “I’m a Spartan for life”. Roba che Leonida impallidirebbe. Tom ha una filosofia particolare nell’allenare, cui è stato dedicato pure un documentario ESPN. Dal 1995, anno in cui ha accettato l’incarico a Michigan State, ha preso alla lettera il nickname della sua squadra. Una vera e propria falange oplitica. D’estate, nel prep-camp fa indossare ai suoi elmetti da football e protezioni, li caccia sotto canestro e fa la gara “vediamo chi prende il rimbalzo”. Sempre con la stessa attrezzatura va ad infastidire i suoi con spintoni e botte tremende mentre penetrano a canestro. Altra particolarità, Izzo al momento della scelta dell non-conference schedule non ha certi timori reverenziali. Vuole abituare la squadra a combattere da subito. Quest’anno ha preso North Carolina (nella famosa partita sulla nave) e Duke alle prime due. Toughness is the way, I’d say. Un Coach di ferro, ma un uomo sensibile prima di tutto. Si preoccupa come pochi altri delle condizioni familiari e scolastiche dei suoi guerrieri. Oltre il 95% dei suoi giocatori ottiene la laurea (una rarità) e alla fine del loro percorso a Lensing non ce n’è stato uno che non si commuovesse parlando di quanto il suo Coach abbia fatto per lui. Cuore italiano, si direbbe..

Anche in campo manageriale “l’Italian job” non se la cava di certo male. Sam Presti, GM dei sorprendenti Thunder, è riuscito a costruire una squadra da titolo in poco più di quattro anni. Di scuola “popovichiana” la tradizione narra che fu lui nel 2001, un anno dopo la laurea, a spingere forte per prendere Tony Parker al draft. E a uno così che gli vuoi dire?

Tra le tante storie di Italiani, o figli di immigranti Italiani che ce l’hanno fatta nel mondo della palla a spicchi ne voglio selezionare due che mi stanno particolarmente a cuore.
La prima parla di un arbitro metà uomo e metà leggenda. Dick Bavetta. Se vi siete mai guardati una telecronaca Buffa-Tranquillo non potete non sapere chi è. Le sue prime partite da arbitro furono quelle tra squadre di brocker finanziari di Wall Street. Che basterebbe. Ma Dick a questo ha aggiunto più di 2100 partite NBA, record di tutti i tempi. E in piena tradizione italiana, fu accusato di aver “aggiustato” gara 6 delle Western Conference Finals. Baciamo le mani..

Per chiudere vado indietro, ma indietro indietro. Ho letto, come molti di voi credo, Black Jesus, la Bibbia dell’appassionato NBA. E mentre piano piano scrivevo questo articolo mi tornava alla mente un capitolo di quel libro, di quel tale dell’università di Stanford che inventò qualcosa. Dio benedica Google, l’ho trovato. Angelo “Hank” Luisetti. D’ora in poi stampatevi bene nella mente che un italiano ha inventato il “jump shot”, il tiro in sospensione. E lui sì, era un italiano vero, di seconda generazione. Suo padre probabilmente non imparò mai l’inglese e visse la sua vita a ricordare la sua terra natìa, sull’italico stivale..

P.S: non penserete davvero che io abbia finito così? Rullo di tamburi..sul tappeto rosso sta arrivando Gino! Proprio lui, Geno Auriemma!

Nasce a Montella, Italia (ma và?), sette volte vincitore del torneo NCAA con le sue UConn Huskies. Nella storia di questo sport è secondo solo a Pat Summit, ma detiene la striscia più lunga di vittorie consecutive, 90.

Italiani popolo di poeti, santi e navigatori..

Di mafiosi e di migranti..

E ora..

Italiani uomini di pallacanestro, quel magnifico gioco che tanto ci appassiona..


Davide Casadei (Twitter: @Pone92 )

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